Dipingere non è soltanto un mestiere, o una passione. Dipingere è una vocazione che non ascolta ragioni logiche. Dipingere è una condizione mentale che può rimetterci in pace con il mondo, trasportandoci in quell’universo privato dove le emozioni si riversano all’esterno.
Gli artisti che dovevano dipingere
La storia dell’arte è costellata di artisti che hanno lottato contro la società, parenti e amici, convenzioni sociali, famiglia e cosiddetti “buoni consigli” per seguire la propria vocazione. Indebitandosi, in taluni casi, vivendo di stenti in altri. Attirandosi pesanti giudizi sociali a causa dello scandalo che la loro opera suscitava in molti contesti. Altri sono riusciti a conciliare il fuoco della pittura con una vita più equilibrata e lavori socialmente apprezzati e rilevanti. Scopriamo le storie private di questi geni che “fortissimamente vollero” restare attaccati al loro naturale status di artista e mai vi rinunciarono, se necessario anche sacrificando la propria vita.
Gauguin: addio al posto fisso
Parigino, nato nel 1848, il pittore Paul Gauguin avrebbe potuto non passare alla storia, se soltanto avesse subito il fascino del posto fisso. Attirato sin dalla tenera età all’arte, in Paul ha sempre vissuto una forte lacerazione interna che lo rendeva scisso tra responsabilità familiari ed economiche contro il bisogno di dedicarsi totalmente alla pittura. A questo si aggiunge una fascinazione per l’esotico che non sarebbe mai riuscito a domare, se non cedendovi. Nel 1883 lascia definitivamente il lavoro in banca per dedicarsi appieno alla pittura che, però, non gli fruttò i successi sperati. Come è noto il pittore si trasferì in Polinesia abbandonando moglie e figli in Europa.
“Tutte queste disgrazie, la difficoltà a guadagnarmi regolarmente da vivere, nonostante la mia fama, nonché il gusto per l’esotico, mi hanno indotto a prendere una decisione irrevocabile: in dicembre torno e mi occupo subito di vendere tutto ciò che possiedo, in blocco o al dettaglio. Una volta intascato il capitale, riparto per l’Oceania. Nulla potrà impedirmi di partire, e sarà per sempre“.
Questo uno stralcio dei suoi tormenti economici che diventeranno anche esistenziali quando una lettera della moglie giungerà in Oceania per avvisarlo della morte della loro bambina. Paul tenterà il suicidio con l’arsenico, ma la dose massiccia ingerita lo porterà a vomitare immediatamente e così a salvarsi. Quella libertà quanto costò cara a Gauguin che in vita non ricevette mai il riconoscimento che gli venne, invece, tributato dopo la morte. Nonostante le incertezze, le miserie e i sensi di colpa restò in Polinesia e continuò a dipingere, e lì morì.
Schiele: il pornografo di Vienna
Non fu più felice la meteora di Egon Schiele. Figlio di un ferroviere, dalla campagna austriaca si trasferì presto nella capitale. La Vienna dell”800 era uno dei massimi teatri per gli artisti emergenti. Immediatamente notato per il suo sfolgorante talento da Gustav Klimt, artista già lanciato nel panorama internazionale, il giovane Egon visse la sua breve esistenza in bilico tra la fascinazione proibita che le sue opere suscitavano anche nei salotti della buona società e lo stigma dell’artista sregolato e perverso.
Schiele venne anche incarcerato con l’accusa di aver molestato una ragazzina, dopo un breve periodo di prigionia – che sull’artista avrà un forte peso – il processo lo riterrà colpevole soltanto di aver esibito le sue opere, considerate pornografiche dall’autorità. In quell’occasione larga parte del lavoro artistico del pittore austriaco verrà data alla fiamme.
La prigionia e l’infamante accusa non faranno che peggiorare l’isolamento sociale e i pesanti giudizi espressi sul giovane pittore che morirà a 28 anni.
Van Gogh: brama di vivere
Brama di vivere è il nome del film che ripercorre la difficile vita di Vincent Van Gogh: colui che incarna perfettamente lo stereotipo del genio incompreso. Spaventosa è infatti la differenza di trattamento, nonché la legittimazione di status di artista, che il pittore ha subito in vita rispetto agli onori che gli sono stati tributati dopo la morte. Estremamente prolifico, l’olandese fu autore di quasi 900 dipinti oltre agli schizzi. Brama di dipingere dal profondo, che lo tormentava e gli dava estasi.
« Non posso vivere facendo maggiori economie di quante già non ne faccia, ho economizzato tutto il possibile; ma il lavoro si sta sviluppando particolarmente in queste ultime settimane e riesco a malapena a controllarlo ormai – voglio dire, le spese che comporta […] La mia costituzione fisica sarebbe abbastanza buona se non avessi dovuto digiunare tanto a lungo, ma si è sempre trattato di scegliere, o digiunare o lavorare meno e ho sempre scelto la prima soluzione, ma ora sono troppo debole. Come faccio a reagire? Ciò ha un tale influsso, chiaro ed evidente, sul mio lavoro che non vedo il modo di andare avanti »
Una vita di immense sofferenze, costellata da frustrazioni professionali: Van Gogh riuscì a vendere soltanto un quadro del suo immenso repertorio: “La vigna rossa”. Entrava e usciva dalle cliniche psichiatriche eppure non smetteva mai di dipingere, in stati quasi di esaltazione febbrile che lo consumavano.
« Mi sono rimesso al lavoro, anche se il pennello mi casca quasi di mano e, sapendo perfettamente ciò che volevo, ho ancora dipinto tre grandi tele. Sono immense distese di grano sotto cieli tormentati, e non ho avuto difficoltà per cercare di esprimere la mia tristezza, l’estrema solitudine. »
Sfinito, in una notte di luglio del 1890, Vincent uscì come al solito vagando per i campi per dipingere qualche paesaggio notturno. Tornò a casa sanguinante, l’oste della locanda in cui alloggiava riportò la confessione del pittore, che ammetteva di essersi sparato al cuore ma di aver fallito anche in quel caso. Poche ore dopo spirò.